Una delle prime opere di Platone, realizzata intorno al 396
a.C., in seguito alla condanna di Socrate. Lo scritto presenta Socrate mentre
pronuncia il discorso a propria discolpa davanti al tribunale che deve
giudicarlo per le accuse di corruzione della gioventù e di culto e
diffusione delle divinità straniere. L'opera non si limita a riportare le
argomentazioni di Socrate, ma assume anche il significato profondo di
un'esaltazione della sua statura morale e intellettuale: si tratta di
un'apologia del grande filosofo filtrata attraverso la sensibilità
letteraria di Platone. Gli argomenti addotti contro le accuse di Meleto, Anito e
Licone, vengono espressi con la superiore ironia di chi è consapevole di
essere nel giusto. L'arringa di Socrate getta una nuova luce sulla figura
spirituale del sommo pensatore, che gli antichi reputavano il più saggio
e il più virtuoso degli uomini. Il discorso passa in rassegna i motivi
fondamentali della sua dottrina morale: l'idea della giustezza, per cui il male
ricade su chi lo commette; il distacco dai beni terreni; la libertà
interiore, che permette di trascendere le leggi comuni e, soprattutto, il
tranquillo dominio della coscienza, che - sola - è capace di conciliare
convenzioni e virtù, interessi e diritti.